L'Agire Magico e le nuove tecnologie
L’agire magico e le nuove tecnologie
Al termine di un’incontro che si è tenuto a Roma dal 18 al 26 luglio mi hanno richiesto alcune parole conclusive e, tra le varie cose, ho riportato la mia preoccupazione sulla verifica della formazione di chi pratica nella rete.
E’ evidente che il compito di verifica è complesso e, riferito alla rete, si può confondere con il dover fornire competenze di carattere morale, tecnico e di preparazione o dare l’occasione di assumere competenze e abilità specifiche, ma verificare non significa istruire ma “capire ciò che si vive” quindi ragionare sull’esperienza partendo dalla propria.
Non importa come si fa un blog o come si sta sui social network, ma discutere su cosa intendono per esoterismo e come lo comunicano quindi la modalità per giungere a una virtuosità dell’agire.
La rete non è un mezzo da usare per far qualcosa, ma è ormai un contesto abitativo, un luogo di ricerca e usarlo per formare significa viverci dentro apprenderne i linguaggi e i contesti specifici, sapendo che la rete non è una “tabula rasa” né può diventare una tabula da “radere”.
Se Internet fa parte della nostra vita quotidiana non è più solo tecnica, non servono competenze specifiche sofisticate, oggi è il luogo da frequentare per stare in contatto con gli altri, leggere le notizie, fare le carte, e questo anche in mobilità perché i cellulari ormai sono dei computer da tasca.
Internet è diventato parte integrante, in maniera fluida, della vita dando un nuovo contesto esistenziale, non dunque un “luogo” specifico dentro cui entrare in alcuni momenti per vivere on line, e da cui uscire per rientrare nella vita off line; la Rete così diffusa incide e limita la capacità di vivere e pensare e, spesso, dal suo influsso dipende la percezione di noi stessi, degli altri, del mondo che ci circonda e di quello che non conosciamo falsando anche i nostri giudizi sui fatti.
L’uomo pauroso di oggi vuole capire la realtà attraverso le tecnologie ( fotografia e cinema hanno cambiato il modo di rappresentare le cose e gli eventi, l’aereo ci fa vedere, ma non comprendere, il mondo in maniera diversa del carro con le ruote; la stampa ha reso tutti intelligenti in maniera diversa) la «tecnologia», dunque, è un insieme di oggetti moderni ma è anche una forma di vivere l’illusione del dominio sulle forze della natura in vista di una vita felice, un frutto di una volontà di potenza e dominio ( anche se Benedetto XVI nella Caritas in Veritate scrive, «è un fatto profondamente umano, legato all’autonomia e alla libertà dell’uomo. Nella tecnica si esprime e si conferma la signoria dello spirito sulla materia», ma come si manifestano le aspirazioni dell’uomo e le tensioni dei suo animo?).
Internet è una rivoluzione, ma vanno tenute salde sia le radici nel passato che le antiche forme di trasmissione del sapere evitando ogni ostentazione ma capendo le prospettive che da e considerando i desideri e le attese dell’uomo attuale, e alle quali va data risposta, sapere che non basta: connessione, relazione e comunicazione ma serve la conoscenza.
Insomma se oggi la rivoluzione digitale modifica il modo di vivere e pensare, questo non riguarderà anche ciò che facciamo? se la Rete entra nel processo di formazione dell’identità personale e delle relazioni, non avrà anche un impatto sull’identità religiosa e spirituale degli uomini e sulla stessa coscienza morale?
Gia sappiamo come gli stili mutevoli di comunicazione hanno influenzato la conoscenza ma non dobbiamo confondere le idee perchè la comunicazione non è un settore avendo da sempre, una valenza teologica.
Dobbiamo capire che facciamo parte dell’azione che muove l’umanità verso il suo compimento, e la rete, con la sua capacità di essere, almeno in potenza, uno spazio di dialogo, fa parte del cammino dell’uomo verso questo compimento e quindi vedere l’ umanità più “unita e connessa” non è un male.
Propongo 4 ambiti di riflessione per il prossimo incontro:
1 - l’esercizio di comunicazione
2 - come comunicare
3 - come legare la nostra comunicazione agli altri
4 - quale parte del sapere può essere comunicato intendendo la rete come locus theologicus.
Alcune risposte
Che cosa significa avere un’esistenza virtuale? in che consiste?
L’esistenza virtuale si configura con uno statuto ontologico incerto: prescinde dalla presenza fisica, ma offre una forma, a volte anche vivida, di presenza sociale. Essa, certo, non è un semplice prodotto della coscienza, un’immagine della mente, ma non è neanche una res extensa, una realtà oggettiva ordinaria, anche perché esiste solo nell’accadere dell’interazione.
E un mondo “intermediario”, ibrido. Le sfere esistenziali coinvolte nella presenza in Rete sono infatti da indagare meglio nel loro intreccio. Sono, in realtà, non due ma tre, guardiamo il caso specifico di Second Life, come esempio.
La «prima vita» è la dimensione della «vita reale» e concreta, cioè non digitale e offline.
La «seconda vita» è la vita di un avatar in un contesto di simulazione quale, ad esempio, è Second Life.
La «terza vita» è l’insieme di attività di un soggetto che agisce in un contesto di simulazione attraverso un avatar.
Una persona della “vita reale” che agisce in un contesto virtuale è una sorta di cyborg (cybernetic organism, “organismo cibernetico”) perché è potenziato attraverso protesi analogiche e digitali, costituite dallo stesso avatar e ovviamente dal computer con monitor e tastiera.
Il piano esistenziale di cui stiamo parlando prende forma nel momento in cui il soggetto fa interagire due piani di realtà, quella reale e quella digitale.
L’avatar, diventa un’estensione digitale dello stesso soggetto che vive e agisce nella vita reale, non un essere autonomo o una parte staccata di se stessi. Tutta la libertà e la responsabilità dell’uomo della «prima vita» dunque sono anche attributi del suo avatar, che vive nella “seconda vita” perché sono esse a muoverlo. È la stessa persona che tramite il suo avatar si muove nel mondo simulato. Questo avatar non è “altro” da sé. Al contrario, è sempre la stessa persona che vive in un differente spazio antropologico. Certamente una parte della nostra capacità di vedere e ascoltare è ormai palesemente “dentro” la Rete, per cui la connettività è ormai in fase di definizione come un diritto la cui violazione incide profondamente sulle capacità relazionali e sociali delle persone. La nostra stessa identità viene sempre di più vista come un valore da pensare come disseminata in vari spazi e non semplicemente legata alla nostra presenza fisica, alla nostra realtà biologica.
La Rete tiene traccia e memoria di noi, le foto taggate, geolocalizzate, collocate nel tempo esatto in cui sono state condivise sono l’album fotografico live della nostra vita. Così i nostri tweets o gli updates dello stato su Facebook e i post dei nostri blog tengono traccia dei nostri pensieri ma anche dei nostri stati emotivi. Le librerie on line e gli altri negozi tengono traccia dei nostri gusti, delle nostre scelte, dei nostri acquisti e a volte anche dei commenti. I video su YouTube costruiscono per frammenti il film della nostra vita fatto dai nostri video e da quelli che gradiamo. Infatti lo streaming della nostra vita non è fatto solo di ciò che immettiamo in Rete ma anche di ciò che “gradiamo”, da ciò che ci piace e che segnaliamo agli altri anche grazie al famoso pulsante “Like”.
Di tutto c’è traccia per gli altri che ci seguono: i nostri followers, i nostri friends… ma, in realtà, c’è anche traccia per noi stessi. In fondo, se in Rete c’è la nostra memoria fatta di parole, immagini, suoni… anche noi possiamo accedere a questo streaming non solamente mentre lo viviamo, ma anche come un “deposito”, come una cosa in sé, un insieme significativo, un… “museo”. Già tempo fa avevo cominciato ad usare una applicazione per iPhone dal nome Momento. Essa tratta i nostri dati condivisi su Facebook e Twitter, Flickr e Last.fm disponendoli cronologicamente su un calendario: basta cliccare un giorno per vedere ciò che in quel giorno abbiamo condiviso: quali pensieri, quali immagini, quali suoni. E’ il nostro diario multimediale e condiviso.
Con la Rete la dimensione diaristica si intreccia a quella museale. La nostra vita diventa qualcosa da “mostrare”, magari grazie ad album sofisticati e complessi in cui si intrecciamo immagini, parole e suoni, appunto. La nostra memoria sociale dunque è la nostra memoria personale che viene condivisa nei network sociali.
E allora ecco un fiorire di applicazioni che servono a musealizzare la nostra vita. Ecco Social Memories, una applicazione che raccoglie la nostra vita sociale in un album illustrato e ricco di dati, grafici, frasi. Ci dice qual è il nostro vocabolario, chi sono gli amici con cui dialoghiamo di più, le foto più popolari… e tutto viene stampato su carta e spedito a casa. Ed ecco però anche un esperimento più estremo: The Museum of me che trasforma la nostra vita sociale in un video che esplora un ambiente che è il museo della nostra vita. Le foto divento quadri, E così via… Ma ecco ance i servizi simili di Memolane e di The Hero. Il nostro passato diventa luogo di scoperta e navigazione. Ma anche luogo di esibizione (museale).
La vita oggi va condivisa, ma dunque anche archiviata, musealizzata, trasformata in uno show affascinante che rischia di cadere nell’egocentrismo spettacolare. Perché affidare ad una macchina il compito di raccontare una storia su se stessi? Può mai la prerogativa di essere narratori autentici di noi stessi essere affidata a una macchina a una automatizzazione? Il principio su cui si basa il processo è il fatto che l’intelligenza possa sostituirsi alla memoria e, in tal modo, di farlo senza valorizzare la connessione reale con la propria esistenza.
E ancora una domanda: affidando all’intelligenza artificiale la memoria non si rischia di far sì che la memoria diventi incapace di essere ritenuta attuale L’evento ricordato nella liturgia è reso presente, e i suoi frutti resi disponibili per i partecipanti. Se l’evocazione della memoria è affidata a un automatismo random e sganciato da un legame effettivo e che non sia semplicemente statistico, allora il rischio che si corre è grave. Anche perché alla fine la vita assume il gusto (affascinante ma pericoloso) dello spettacolo.
L’idea del “network computer” non è nuova, ( nel 1998 lo propose Oracle ma non se ne fece nulla perché le connessioni erano lente e inaffidabili rispetto a oggi.)
Il concetto è sempre lo stesso: delocalizzare dal computer (idea di “possesso”) ad un luogo organizzatore e distribuito (“condivisione”). Sono due filosofie di pensiero, che vengono dal mondo reale ma nei social network la condivisione non c’è più.
“Il sito” da cui partono contenuti e commenti, ma c’è una rete di contenuti che interagiscono secondo configurazioni (che poi si studiano anche in teoria dei grafi, in modo banale). Non c’è niente di nuovo in realtà: sono applicazioni, nel mondo virtuale, di organizzazioni di significato e sociali che già esistono nel mondo reale. Quando invece di esserci uno che parla ex cathedra, ovvero un sito web, c’è un insieme di persone che discutono inter pares, stiamo assistendo a un “facebook” realista :). Di ricadute ce ne sono sempre tante.
Ma il dato significativo non è l’organizzazione dei dati non è che l’ultimo “sintomo” di un cambiamento ma è lo spostamento della discussione, e quindi anche del contenuto, dal proprio “centro” (pc, isola virtuale, sito web, ecc.), alla rete, al mondo social, a quel villaggio globale che torna necessario
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