felicità e piaceri
Felicità e piaceri
Che cos’è la felicità? Felice è il termine corradicale di fecondo: fecondo significa che produce frutti e poiché produce frutti è propizio, cioè procede favorevolmente raggiungendo il proprio fine.
La felicità non va confusa con il piacere momentaneo: il piacere, da solo, non soddisfa le esigenze più profonde della persona perché c’è in ogni uomo il bisogno d’integrare e coordinare le passioni con la volontà, la volontà con la ragione e la ragione con la verità.
La felicità è un processo che porta all’unione dell’uomo con sé stesso e con l’ordine fondamentale della realtà e il vero piacere risulta come conseguenza della realizzazione di un tale significato.
Inoltre bisogna sottolineare che per l’uomo esistono due tipi di felicità: una felicità naturale, incipiente e imperfetta, e una sovrannaturale perfetta che consiste nel possesso di Dio: infatti nessun bene naturale contribuisce al pieno appagamento dei desideri dell’uomo. Per l’uomo occorre un bene infinito perché è il solo adeguato alla capacità infinita delle sue facoltà spirituali, l’intelletto e la volontà (1).
Il piacere è propriamente la quiete che si ha nel raggiungere e possedere l’obbiettivo del proprio desiderio. Quando l’obbiettivo del proprio desiderio è inadeguato — in quanto non naturale e non conforme alla giustizia — il possesso è imperfetto rispetto alle aspettative per colpa dell’inadeguatezza della cosa posseduta nei confronti delle esigenze più profonde della persona, il piacere momentaneo viene frustrato perché l’uomo si sente insoddisfatto e diviso, contemporaneamente schiavo del male fatto e deluso dal piacere ottenuto: il movimento del desiderio non cessa ma diventa ossessivo e non si ha il vero piacere che è la quiete di tutte le facoltà dell’uomo nel bene amato.
"Questa è la profonda natura del peccato: l’uomo si stacca dalla verità, mettendo la sua volontà al di sopra di essa. Volendo liberarsi di Dio ed essere lui stesso dio, egli si inganna e si distrugge. Egli si aliena da se stesso" (2).
"Peccando, l’uomo intende liberarsi da Dio, ma in realtà si rende schiavo. [...] Per questo il suo cuore è in balìa dell’inquietudine.
"L’uomo peccatore, che rifiuta di aderire a Dio, è portato necessariamente ad attaccarsi in modo errato e distruttivo alla creatura. In questo suo volgersi alla creatura (conversio ad creaturam) egli concentra su questa il suo desiderio insoddisfatto di infinito. Senonché, i beni creati sono limitati, per cui il suo cuore trascorre dall’uno all’altro, sempre in cerca di un’impossibile pace" (3).
La ribellione contro Dio ha prodotto la ribellione delle potenze inferiori dell’anima, le passioni, contro le superiori, la ragione e la volontà, per cui l’uomo spesso non fa il bene che vuole ma il male che non vorrebbe.
Il peccato originale ha portato in noi la divisione: ognuno può apprezzare in sé stesso l’esistenza di due tendenze. La tendenza a riconoscere e ad approvare la giustizia e la tendenza al piacere disordinato.
"La carne infatti ha voglie contrarie allo spirito; lo spirito, a sua volta, ha voglie contrarie alla carne. E queste cose si oppongono a vicenda, in modo che voi non fate ciò che vorreste" (4).
La tendenza al piacere può essere buona o cattiva: essa è cattiva se il piacere contrasta con la giustizia che la ragione ha riconosciuto. Esiste un’esperienza fondamentale che facciamo tutti: vediamo con certezza che dovremmo fare una certa cosa che riconosciamo essere buona e tralasciare un’altra che riconosciamo essere cattiva. Potremmo farlo con un po’ di fatica, però non lo facciamo perché non abbiamo voglia di superare la nostra repulsione di fronte a qualche cosa che, momentaneamente, non ci piace e implica uno sforzo.
Il filosofo cattolico Marcel De Corte scrive che "essere nella verità significa conformare la propria intelligenza a una realtà che l’intelligenza non ha né costruita, né sognata, e che a lei si impone. Fare il bene non vuol dire abbandonarsi agli istinti, agli impulsi affettivi e alla volontà propria, ma ordinare e subordinare le proprie attività alle leggi prescritte dalla natura e dalla Divinità che la intelligenza scopre nella sua instancabile ricerca della felicità" (5).
"[...] l’uomo sa, fin dalla nascita, di essere inserito in un universo fisico e metafisico che egli non ha fatto, in un ordine che non è alla sua mercé, in una gerarchia di esseri di cui non può alterare la distribuzione senza danneggiare se stesso. Qualunque cosa faccia, l’uomo riconosce di non poter divenire diverso da ciò che è per sua natura, per vocazione o per grazia: nessuno può evadere dall’essere proprio. Superarsi in qualche modo, aggiungere un cubito alla sua statura, volere essere di più esclude l’uomo dall’universo e dall’ordine. Il concetto cristiano del peccato, come violazione della legge imposta da Dio a ognuna delle sue creature, si incontra qui col concetto greco dell’hybris, della dismisura, secondo la quale ogni uomo che esorbita dai suoi limiti è immediatamente punito della propria temerarietà dalla frantumazione del suo medesimo essere incontinente" (6).
Quando criterio di giudizio della realtà diventa il desiderio al posto della ragione, quando la verità viene sostituita dall’immaginazione, sostituzione operata dalla volontà di potenza, l’intelligenza, "privata dell’oggetto suo proprio, [...] mai saziata dal vacuo nutrimento che le viene offerto, ne reclama un altro e si sfinisce in questa immersione in un mondo immaginario come un naufrago torturato dalla sete nel mare "che sempre ricomincia"" (7).
"Il culto della novità, del cambiamento, del progresso, della rivoluzione che infuria da due secoli, non ha altra origine se non questo asservimento della nostra attività intellettuale operato dalla immaginazione e dalla volontà di potenza" (8).
L’uomo deve dominare la natura ma la natura si lascia dominare solo conoscendone le leggi e applicandole, pertanto il dominio dell’uomo sulla natura non è assoluto ma relativo, cioè non può andare oltre il limite costituito dalle finalità stesse dell’ordine naturale: tale limite è quello che distingue il Creatore dalla creatura.
"Il dominio accordato dal Creatore all’uomo non è un potere assoluto, né si può parlare di libertà di "usare e abusare", o di disporre delle cose come meglio aggrada. La limitazione imposta dallo stesso Creatore fin dal principio, ed espressa simbolicamente con la proibizione di "mangiare il frutto dell’albero" (cf Gen. 2, 16-17), mostra con sufficiente chiarezza che, nei confronti della natura visibile, siamo sottomessi a leggi non solo biologiche, ma anche morali, che non si possono impunemente trasgredire" (9).
NOTE
(1) Cfr. san Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, Ia-IIae, q. 62, a. 1; q. 2, a. 1-8; sul problema del piacere, cfr. ibid., q. 34, a. 1-2.
(2) Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione su libertà cristiana e liberazione "Libertatis conscientia", del 22-3-1986, n. 37.
(3) Ibid., n. 40.
(4) Gal. 5, 17.
(5) Marcel De Corte, L’intelligenza in pericolo di morte, trad. it., Volpe, Roma 1973, pp. 15-16.
(6) Ibid., pp. 16-17.
(7) Ibid., p. 46.
(8) Ibidem.
(9) Giovanni Paolo II, Enciclica Sollicitudo Rei socialis nel ventesimo anniversario della Populorum progressio, del 30-12-1987, n. 34.
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